Storia del Rock degli Anni 2000
Disturbed
Anni 2000:
L’inizio del Duemila ha visto il progressivo declino di molte tendenze in voga nei tardi anni Novanta, come la seconda stagione d’oro degli Aerosmith e il culto di Marilyn Manson (o forse dovrei dire “dei” MM, ma è solo una questione formale).
Analogamente, la scena crossover/nu-metal si è eclissata molto presto, con lo split dei Rage Against The Machine, la caduta libera di Korn e Limp Bizkit, gli ultimi episodi degni di nota di Deftones (“White Pony”, 2000) e degli insopportabili P.O.D. (“Satellite”, 2001), e il moderato successo di Disturbed, Papa Roach e Incubus (sempre più commerciali, ma con gusto).
I System Of A Down, i più originali del lotto, hanno toccato l’apogeo con “Toxicity” (2001) per poi spegnersi nell’arco di cinque anni, mentre i più radio-oriented Linkin Park sono di fatto i soli sopravvissuti a questo decennio, con eccellenti risultati di vendite dal disco d’esordio “Hybrid Theory” (2000) a tutt’oggi.
L’inizio del Duemila ha visto il progressivo declino di molte tendenze in voga nei tardi anni Novanta, come la seconda stagione d’oro degli Aerosmith e il culto di Marilyn Manson (o forse dovrei dire “dei” MM, ma è solo una questione formale).
Analogamente, la scena crossover/nu-metal si è eclissata molto presto, con lo split dei Rage Against The Machine, la caduta libera di Korn e Limp Bizkit, gli ultimi episodi degni di nota di Deftones (“White Pony”, 2000) e degli insopportabili P.O.D. (“Satellite”, 2001), e il moderato successo di Disturbed, Papa Roach e Incubus (sempre più commerciali, ma con gusto).
I System Of A Down, i più originali del lotto, hanno toccato l’apogeo con “Toxicity” (2001) per poi spegnersi nell’arco di cinque anni, mentre i più radio-oriented Linkin Park sono di fatto i soli sopravvissuti a questo decennio, con eccellenti risultati di vendite dal disco d’esordio “Hybrid Theory” (2000) a tutt’oggi.
Green Day
Anche il pop punk che tanto piaceva negli anni Novanta ha registrato un calo di popolarità affacciandosi alla soglia del nuovo millennio: gli Offspring sono crollati inguaribilmente da “Conspiracy of One” (2000) in poi, mentre i Blink-182 hanno resistito ancora qualche anno.
Gli unici ad avere tenuto botta, e con ottimi esiti commerciali, sono stati i Green Day, che con le loro tronfie opere rock “American Idiot” (2004) e “21st Century Breakdown” (2009) hanno sbancato i music store riempiendo gli stadi: la musica è ancora semplice come agli esordi, ma in compenso si prendono molto più sul serio. I nuovi Green Day, in quanto a look, sonorità e pubblico di riferimento, hanno qualcosa a che spartire con l’emo, variante melod(rammat)ica e particolarmente commerciabile del punk, nel cui ampio spettro rientrano formazioni teen-oriented come 30 Seconds To Mars (“A Beautiful Lie”, 2005), My Chemical Romance (“The Black Parade”, 2006)
Gli unici ad avere tenuto botta, e con ottimi esiti commerciali, sono stati i Green Day, che con le loro tronfie opere rock “American Idiot” (2004) e “21st Century Breakdown” (2009) hanno sbancato i music store riempiendo gli stadi: la musica è ancora semplice come agli esordi, ma in compenso si prendono molto più sul serio. I nuovi Green Day, in quanto a look, sonorità e pubblico di riferimento, hanno qualcosa a che spartire con l’emo, variante melod(rammat)ica e particolarmente commerciabile del punk, nel cui ampio spettro rientrano formazioni teen-oriented come 30 Seconds To Mars (“A Beautiful Lie”, 2005), My Chemical Romance (“The Black Parade”, 2006)
Il fenomeno che ha caratterizzato maggiormente l’inizio del Duemila è stato il post grunge di Staind (“Break the Circle”, 2001), 3 Doors Down (“The Better Life”, 2000), Puddle Of Mudd (“Come Clean”, 2001) e Nickelback (“Silver Side Up”, 2001), questi ultimi i più longevi, prolifici e baciati dal successo.
Per quanto riguarda il grunge autentico, al di là dei Pearl Jam, che hanno attraversato il decennio indenni, ma anche senza farsi troppo notare, negli ultimi tempi si sono registrati i ritorni in studio di Smashing Pumpkins (“Zeitgeist”, 2007) e Alice In Chains (“Black Gives Way To Blue”, 2009)
Per quanto riguarda il grunge autentico, al di là dei Pearl Jam, che hanno attraversato il decennio indenni, ma anche senza farsi troppo notare, negli ultimi tempi si sono registrati i ritorni in studio di Smashing Pumpkins (“Zeitgeist”, 2007) e Alice In Chains (“Black Gives Way To Blue”, 2009)
Curiosamente, proprio dai rivoli meno torbidi della palude grunge sono nati alcuni dei dischi più fortunati del “rock come si deve” di questi anni. Dall'incontro tra i vocalist dei già citati Soundgarden e STP e gli strumentisti di RATM e Guns N’ Roses sono nati rispettivamente gli Audioslave (s/t, 2002) e i Velvet Revolver (“Contraband”, 2004), due supergruppi di belle speranze ma dagli esiti non proprio sensazionali.
Molto meglio gli Alter Bridge, generati dai tre quarti dei Creed (scioltisi dopo il milionario “Weathered” del 2001 e da poco rientrati nel music biz), che però hanno avuto un successo commerciale più risicato.
Ma il decennio è stato letteralmente dominato dai Foo Fighters di Dave Grohl, che collezionano dischi di platino con sorprendente continuità e sono ora arrivati al ragguardevole traguardo del greatest hits. Non bastasse questo, il buon Dave ha prestato anche la sua abilità balistica al riuscitissimo “Songs for the Deaf” (2002) dei Queens Of The Stone Age, e la sua amicizia con il padre dello stoner Josh Homme è proseguita fino alla recente fondazione dei Them Crooked Vultures (con l’esimio John Paul Jones dei Led Zeppelin), sul cui debut album non posso ancora pronunciarmi ma di cui mi hanno parlato molto bene.
Molto meglio gli Alter Bridge, generati dai tre quarti dei Creed (scioltisi dopo il milionario “Weathered” del 2001 e da poco rientrati nel music biz), che però hanno avuto un successo commerciale più risicato.
Ma il decennio è stato letteralmente dominato dai Foo Fighters di Dave Grohl, che collezionano dischi di platino con sorprendente continuità e sono ora arrivati al ragguardevole traguardo del greatest hits. Non bastasse questo, il buon Dave ha prestato anche la sua abilità balistica al riuscitissimo “Songs for the Deaf” (2002) dei Queens Of The Stone Age, e la sua amicizia con il padre dello stoner Josh Homme è proseguita fino alla recente fondazione dei Them Crooked Vultures (con l’esimio John Paul Jones dei Led Zeppelin), sul cui debut album non posso ancora pronunciarmi ma di cui mi hanno parlato molto bene.
La sensazione è comunque quella che i musicisti di valore, nel rock che conta, siano sempre gli stessi: un ulteriore esempio è costituito dagli A Perfect Circle (“Mer de Noms”, 2000) di Maynard James Keenan.
Qualche nuova forza è scesa in campo per cercare di ravvivare la scena, ma i buoni propositi hanno dato esiti convincenti solo per metà: penso ai The Darkness (“Permission to Land”, 2003), che hanno siglato delle buone hit e per lo meno sanno suonare come si deve, e agli australiani Wolfmother, la cui Joker & the Thief è a mio avviso uno dei pezzi più belli che si siano sentiti negli ultimi anni.
I più nostalgici possono comunque contare sui dinosauri del “bel rock di una volta”, dai Kiss a Billy Idol, dai Mötley Crüe ad Axl Rose (non mi sembra il caso di scomodare il nome dei Guns), per non parlare dei sempre-uguali AC/DC, che con “Black Ice” (2008) hanno avuto un successo davvero smisurato sul quale sarebbe il caso di riflettere.
Sul versante più commerciale del rock, continuano a imperversare band dal successo planetario come U2 e Bon Jovi, oltre a formazioni come Placebo e Red Hot Chili Peppers, che da anni non ne imbroccano una giusta neanche a pagarli oro, ma ormai chi li ferma più?
Resistono anche i Radiohead, apparentemente caduti nell’oblio, ma che in realtà continuano a vendere alla grande, e per di più senza stressarci l’anima a tutte le ore sulle radio rock. Le nuove leve più blasonate, fatta eccezione per gli statunitensi Kings Of Leon, vengono dalla terra d’Albione e si chiamano Coldplay (“A Rush of Blood to the Head”, 2002), risposta inglese ai sempre più soporiferi R.E.M., e soprattutto Muse, adorati da sir Brian May.
Questi ultimi, con il loro rock ruvido ma patinato (“Origin of Symmetry”, 2001), ora elettronico ora sinfonico e vagamente progressivo, hanno fatto sfaceli per tutto il decennio, riuscendo nel difficile compito di attirarsi i favori della critica e di ampie masse di ascoltatori paganti.
Non so quanti altri anni ci vorranno prima che riuscirò ad ascoltare un loro album dall’inizio alla fine, ma si tratta pur sempre di una delle band più importanti di questo stupido, inutile decennio, peraltro contrassegnato da una scarsa presenza femminile, con l’unica e strepitosa eccezione degli Evanescence (“Fallen”, 2003, 15 milioni di copie vendute in tutto il mondo).
Con incidenza sempre maggiore nel corso degli anni, il mainstream è stato invaso da un fruttuoso revival di generi come indie, post-punk e soprattutto garage rock, sintomo di un desiderio condiviso di tenere alta la bandiera dell’allegria e della spensieratezza etilica.
Spopolano soprattutto le band britanniche come Franz Ferdinand (s/t, 2004), Kaiser Chiefs (“Employment”, 2005), Arctic Monkeys (“Whatever People Say…”, 2004), The Fratellis, Editors, Interpol e White Lies, anche se i prime movers sono stati i newyorchesi The Strokes (“Is This It”, 2001).
Sempre sul fronte americano occorre ricordare almeno i The Killers e i White Stripes, guidati da quel curioso personaggio di nome Jack White che non è un genio ma neanche un beota come si crede (si ascolti “Broken Boy Soldiers”, 2006, disco d’esordio dei suoi Raconteurs).
Chiudono il conto gli svedesi The Hives e gli australiani Jet, noti in tutto il mondo per la loro cover di Lust for Life di Iggy Pop.
Qualche nuova forza è scesa in campo per cercare di ravvivare la scena, ma i buoni propositi hanno dato esiti convincenti solo per metà: penso ai The Darkness (“Permission to Land”, 2003), che hanno siglato delle buone hit e per lo meno sanno suonare come si deve, e agli australiani Wolfmother, la cui Joker & the Thief è a mio avviso uno dei pezzi più belli che si siano sentiti negli ultimi anni.
I più nostalgici possono comunque contare sui dinosauri del “bel rock di una volta”, dai Kiss a Billy Idol, dai Mötley Crüe ad Axl Rose (non mi sembra il caso di scomodare il nome dei Guns), per non parlare dei sempre-uguali AC/DC, che con “Black Ice” (2008) hanno avuto un successo davvero smisurato sul quale sarebbe il caso di riflettere.
Sul versante più commerciale del rock, continuano a imperversare band dal successo planetario come U2 e Bon Jovi, oltre a formazioni come Placebo e Red Hot Chili Peppers, che da anni non ne imbroccano una giusta neanche a pagarli oro, ma ormai chi li ferma più?
Resistono anche i Radiohead, apparentemente caduti nell’oblio, ma che in realtà continuano a vendere alla grande, e per di più senza stressarci l’anima a tutte le ore sulle radio rock. Le nuove leve più blasonate, fatta eccezione per gli statunitensi Kings Of Leon, vengono dalla terra d’Albione e si chiamano Coldplay (“A Rush of Blood to the Head”, 2002), risposta inglese ai sempre più soporiferi R.E.M., e soprattutto Muse, adorati da sir Brian May.
Questi ultimi, con il loro rock ruvido ma patinato (“Origin of Symmetry”, 2001), ora elettronico ora sinfonico e vagamente progressivo, hanno fatto sfaceli per tutto il decennio, riuscendo nel difficile compito di attirarsi i favori della critica e di ampie masse di ascoltatori paganti.
Non so quanti altri anni ci vorranno prima che riuscirò ad ascoltare un loro album dall’inizio alla fine, ma si tratta pur sempre di una delle band più importanti di questo stupido, inutile decennio, peraltro contrassegnato da una scarsa presenza femminile, con l’unica e strepitosa eccezione degli Evanescence (“Fallen”, 2003, 15 milioni di copie vendute in tutto il mondo).
Con incidenza sempre maggiore nel corso degli anni, il mainstream è stato invaso da un fruttuoso revival di generi come indie, post-punk e soprattutto garage rock, sintomo di un desiderio condiviso di tenere alta la bandiera dell’allegria e della spensieratezza etilica.
Spopolano soprattutto le band britanniche come Franz Ferdinand (s/t, 2004), Kaiser Chiefs (“Employment”, 2005), Arctic Monkeys (“Whatever People Say…”, 2004), The Fratellis, Editors, Interpol e White Lies, anche se i prime movers sono stati i newyorchesi The Strokes (“Is This It”, 2001).
Sempre sul fronte americano occorre ricordare almeno i The Killers e i White Stripes, guidati da quel curioso personaggio di nome Jack White che non è un genio ma neanche un beota come si crede (si ascolti “Broken Boy Soldiers”, 2006, disco d’esordio dei suoi Raconteurs).
Chiudono il conto gli svedesi The Hives e gli australiani Jet, noti in tutto il mondo per la loro cover di Lust for Life di Iggy Pop.
Kaiser Chief
In tutto questo gran calderone mondiale, la scena italiana non spicca certo per brillantezza, spaccata sempre più inesorabilmente tra i suoi esponenti più commerciali (Velvet, Le Vibrazioni e Negramaro, oltre ai soliti Vasco e Ligabue) e quella progenie di gruppi derivati dalla “wave” degli anni Novanta di Afterhours & co., tutti bravi ma tutti così inguaribilmente indie (ci metto dentro chiunque: Verdena, Giardini di Mirò, Deasonika, Baustelle, Marta Sui Tubi, I Ministri, Il Teatro Degli Orrori).
Afterhours
Da quando i Timoria si sono sciolti e i Negrita sono “rotolati verso sud” sembra che nessuno in Italia sia più capace di scrivere rock che non sia alternativo o scalaclassifiche.
Meglio dunque radunare tutti gli spiriti saggi intorno a un unico progetto, magari a scopo benefico, come nel caso dei Rezophonic.
Meglio dunque radunare tutti gli spiriti saggi intorno a un unico progetto, magari a scopo benefico, come nel caso dei Rezophonic.
Rezophonic
La mancata innovazione del rock:
Simon Reynolds, su Rolling Stone ha cercato di tratteggiare un quadro generale della musica pop (di cui il rock è tecnicamente una sottocategoria) di questo primo squarcio di secolo.
L’impressione, secondo il critico inglese, è che il pop abbia subito una battuta d’arresto in questi ultimi anni, e mentre ogni altro decennio ha partorito dei nuovi generi, gli anni Zero si sono limitati a recuperare i generi del passato con un minimo contributo d’innovazione. «Il rock convenzionale», sostiene Reynolds, «ha continuato nell’opera di sciacallaggio del suo verminoso passato, inaugurando gli anni Zero con un revival garage punk (White Stripes, Hives) e chiudendolo con un assalto senza regole ai decenni passati (il post-punk anni ’80, lo shoegaze anni ’90, il rock psichedelico anni ’60 e altro).
È possibile che siano rimasti tutti simultaneamente a corto di idee?».
Secondo Reynolds la crisi musicale di questi anni è per certi versi «un equivalente culturale e musicale della crisi ecologica», ma poi la riflessione assume risvolti inaspettati: «Perché è così importante che la musica pop sia perennemente proiettata in avanti?
Sembra che il pop sia soggetto a una pressione particolare, un fardello storico a cui non sono soggette altre forme d’arte. (…)
Forse è tutta colpa dei Beatles.
La loro sorprendente esplosione creativa nei quattro anni che vanno da “Rubber Soul” a “White Album” ha posizionato la barra a un livello troppo elevato per i successori».
Per Reynolds, dunque, «sono gli anni ’60 a contribuire all’attuale sensazione di entropia.
Quel decennio iconoclasta è stato l’era dell’innovazione capace di rompere con la tradizione su tutti i fronti della cultura (…).
Se giudichiamo l’odierna stasi con tanta severità è perché gli anni Sessanta sono stati assolutamente vertiginosi».
Ed ecco come questa stasi troverebbe giustificazione, secondo Reynolds, nella congiuntura socio-culturale: «Negli ultimi anni la nostra fiducia nel cambiamento è stata messa a dura prova dalla rinascita dei fondamentalismi, dal riscaldamento globale, dal risorgere di divisioni razziali e sociali, dal crollo del sistema finanziario mondiale determinato dal buco nero del credito.
Se tutto attorno a noi sta subendo un’inversione di tendenza, perché il caro vecchio pop dovrebbe restarne immune?
Forse è questa la ragione del prevalere di una diversa nozione di musica: non più le ripetute, violente emozioni dell’innovazione, ma la forza della continuità, fondamento di stabilità in un mondo precario». Condivisibile o meno, è un’analisi che ha senza dubbio una sua coerenza.
Se poi qualcosa di questo decennio di “continuità” e “stabilità” musicale riuscirà a passare dalla cronaca alla storia senza finire immediatamente nel dimenticatoio, lo scopriremo solo vivendo… (Nota: il saggio di Simon Reynolds è contenuto nella raccolta Gli Anni Zero: 2001-2009. Almanacco del decennio condensato, ISBN Edizioni, 2009.)
Tendenze dell’heavy metal del Duemila:
La scena heavy metal, dove molto si crea e quasi nulla si distrugge, non si è mai fatta particolarmente intimidire dalle congiunture socio-culturali, a cui è solita reagire con creatività e senza bisogno di cercare avanzi nella pattumiera della musica.
In questo decennio caotico, violento e in perpetua crisi d’identità, il metal ha generato almeno due correnti decisamente esemplificative dello spirito del tempo: l’apocalittico e straniante post-metal di Neurosis, Isis e Cult Of Luna, i cui dischi hanno un suono talmente saturo da far sembrare la loudness war conclusa una volta per tutte, e soprattutto il furioso metalcore (con prolusione nel deathcore), il vero fenomeno metal di questi anni.
Questa particolare commistione di influenze ricevute dagli Slipknot (che appartengono a pieno titolo alla scena nu metal pur essendo molto più metal della media), dall’hardcore, dal thrash-groove dei Machine Head e dal melodic death “prosciugato” degli ultimi In Flames ha portato alla creazione di un genere molto prolifico, i cui adepti sono Killswitch Engage, Bullet For My Valentine e buona parte della cosiddetta New Wave Of American Heavy Metal, con i vari Lamb Of God, Trivium, Avenged Sevenfold, Hatebreed e via discorrendo. (Il metalcore e la NWOAHM hanno a loro volta riportato l’interesse sul thrash, generando nuove band come Evile e Municipal Waste, e ricreando un humus fertile per formazioni storiche come i Metallica, che dopo il terribile “St. Anger” sono finalmente tornati entro i confini dell’ascoltabilità).
Simon Reynolds, su Rolling Stone ha cercato di tratteggiare un quadro generale della musica pop (di cui il rock è tecnicamente una sottocategoria) di questo primo squarcio di secolo.
L’impressione, secondo il critico inglese, è che il pop abbia subito una battuta d’arresto in questi ultimi anni, e mentre ogni altro decennio ha partorito dei nuovi generi, gli anni Zero si sono limitati a recuperare i generi del passato con un minimo contributo d’innovazione. «Il rock convenzionale», sostiene Reynolds, «ha continuato nell’opera di sciacallaggio del suo verminoso passato, inaugurando gli anni Zero con un revival garage punk (White Stripes, Hives) e chiudendolo con un assalto senza regole ai decenni passati (il post-punk anni ’80, lo shoegaze anni ’90, il rock psichedelico anni ’60 e altro).
È possibile che siano rimasti tutti simultaneamente a corto di idee?».
Secondo Reynolds la crisi musicale di questi anni è per certi versi «un equivalente culturale e musicale della crisi ecologica», ma poi la riflessione assume risvolti inaspettati: «Perché è così importante che la musica pop sia perennemente proiettata in avanti?
Sembra che il pop sia soggetto a una pressione particolare, un fardello storico a cui non sono soggette altre forme d’arte. (…)
Forse è tutta colpa dei Beatles.
La loro sorprendente esplosione creativa nei quattro anni che vanno da “Rubber Soul” a “White Album” ha posizionato la barra a un livello troppo elevato per i successori».
Per Reynolds, dunque, «sono gli anni ’60 a contribuire all’attuale sensazione di entropia.
Quel decennio iconoclasta è stato l’era dell’innovazione capace di rompere con la tradizione su tutti i fronti della cultura (…).
Se giudichiamo l’odierna stasi con tanta severità è perché gli anni Sessanta sono stati assolutamente vertiginosi».
Ed ecco come questa stasi troverebbe giustificazione, secondo Reynolds, nella congiuntura socio-culturale: «Negli ultimi anni la nostra fiducia nel cambiamento è stata messa a dura prova dalla rinascita dei fondamentalismi, dal riscaldamento globale, dal risorgere di divisioni razziali e sociali, dal crollo del sistema finanziario mondiale determinato dal buco nero del credito.
Se tutto attorno a noi sta subendo un’inversione di tendenza, perché il caro vecchio pop dovrebbe restarne immune?
Forse è questa la ragione del prevalere di una diversa nozione di musica: non più le ripetute, violente emozioni dell’innovazione, ma la forza della continuità, fondamento di stabilità in un mondo precario». Condivisibile o meno, è un’analisi che ha senza dubbio una sua coerenza.
Se poi qualcosa di questo decennio di “continuità” e “stabilità” musicale riuscirà a passare dalla cronaca alla storia senza finire immediatamente nel dimenticatoio, lo scopriremo solo vivendo… (Nota: il saggio di Simon Reynolds è contenuto nella raccolta Gli Anni Zero: 2001-2009. Almanacco del decennio condensato, ISBN Edizioni, 2009.)
Tendenze dell’heavy metal del Duemila:
La scena heavy metal, dove molto si crea e quasi nulla si distrugge, non si è mai fatta particolarmente intimidire dalle congiunture socio-culturali, a cui è solita reagire con creatività e senza bisogno di cercare avanzi nella pattumiera della musica.
In questo decennio caotico, violento e in perpetua crisi d’identità, il metal ha generato almeno due correnti decisamente esemplificative dello spirito del tempo: l’apocalittico e straniante post-metal di Neurosis, Isis e Cult Of Luna, i cui dischi hanno un suono talmente saturo da far sembrare la loudness war conclusa una volta per tutte, e soprattutto il furioso metalcore (con prolusione nel deathcore), il vero fenomeno metal di questi anni.
Questa particolare commistione di influenze ricevute dagli Slipknot (che appartengono a pieno titolo alla scena nu metal pur essendo molto più metal della media), dall’hardcore, dal thrash-groove dei Machine Head e dal melodic death “prosciugato” degli ultimi In Flames ha portato alla creazione di un genere molto prolifico, i cui adepti sono Killswitch Engage, Bullet For My Valentine e buona parte della cosiddetta New Wave Of American Heavy Metal, con i vari Lamb Of God, Trivium, Avenged Sevenfold, Hatebreed e via discorrendo. (Il metalcore e la NWOAHM hanno a loro volta riportato l’interesse sul thrash, generando nuove band come Evile e Municipal Waste, e ricreando un humus fertile per formazioni storiche come i Metallica, che dopo il terribile “St. Anger” sono finalmente tornati entro i confini dell’ascoltabilità).
Se il metalcore e il post-metal rappresentano, in modo diverso ma concorde, la tendenza al “rumore a tutti i costi” insita in buona parte del metal di oggi, i deliziosi Mastodon, una delle band più interessanti della NWOAHM, sono a loro volta esemplificativi di un’altra delle principali costanti del metal del Duemila, vale a dire la vena progressive che interseca sistematicamente ogni corrente del genere.
Il successo dei sempre più acclamati Tool, la salita alla ribalta di Symphony X e Sonata Arctica, il clamore destato da formazioni liminali come Porcupine Tree e The Mars Volta, e l’unanime consenso intorno a band più estreme come Opeth e Meshuggah, dimostrano come la complessità del songwriting di una band sia sempre più percepita come un segno distintivo di valore.
Terza caratteristica significativa degli anni Zero è il ritorno del gothic al centro della scena, con band come i Katatonia e i ritrovati Paradise Lost, ma soprattutto con il symphonic metal di Nightwish, Within Temptation ed Epica, che riprende il cantato stile “beauty and the beast” brevettato dai Theatre Of Tragedy (ma il ruolo principale è giocato dalle gradevoli voci femminili da mezzo-soprano) e l’amore per le grandi architetture orchestrali in stile Therion, ed è solo un aspetto della generale “goticizzazione” della scena rock nel suo complesso (si veda il successo degli HIM, degli italiani Lacuna Coil e dei già citati Evanescence).
Fonte: (Web)
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